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Google fa suonare la sua intelligenza artificiale

Project Magenta, basato su strumenti open source, fa progressi. E pubblica la sua prima canzone. I dipinti del suo cugino sviluppato a Mountain View sono già quotati migliaia di dollari.

Dipingere e suonare strumenti musicali sono attività da sempre legate alla “sfera umana”. L'estro creativo, le capacità artistiche e le emozioni che con esse trasmettiamo, o che da esse percepiamo, sono ciò che ci ha sempre contraddistinto dal regno animale (in epoche più primitive) e dalle macchine (nei tempi più moderni), collocandoci per “diritto divino” in cima alla catena alimentare. Ma è (o sarà) ancora così? Difficile continuare a scommettere in tal senso, specialmente dopo quello che abbiamo visto e sentito nelle ultime settimane. Google ha fatto sfoggio dei primi (incoraggianti?) risultati del suo Project Magenta, dimostrando che per svolgere tali attività non servirà più un'entità fatta di carne, ossa e cervello.

Project Magenta, lanciato ufficialmente il primo giugno, è l'ambiziosa ricerca di Google che punta a insegnare musica e arte ai computer (reti neurali artificiali), affinché questi possano comporre e creare “opere” in totale autonomia. Alle spalle di tutto c'è TensorFlow, la libreria software open source impiegata da Big G anche nel progetto SyntaxNet per l'apprendimento del linguaggio naturale. Douglas Eck, del Team Brain di Google, spiega che l'obiettivo di Magenta è comprendere se le AI siano in grado di generare brani musicali o elementi di arte visiva tramite elaborazione di algoritmi, senza interventi da parte dell'uomo (in fase compositiva). E a quanto pare, lo sono.

Dopo una prima dimostrazione al MoogFest 2016, celebre evento dedicato al mondo della musica e della tecnologia (svoltosi dal 19 al 22 maggio a Durham in Nord Carolina), dov'è bastato suonare quattro note per innescare l'apprendimento, la reazione e la risposta creativa dell'AI, Google ha regalato al mondo la prima vera “performance generative” di Magenta (senza intervento da parte dell'uomo): una breve melodia di 90 secondi al pianoforte che sancisce l'esordio ufficiale del suo “giovane Mozart virtuale” (la ritmica è stata aggiunta in seguito per dare alla composizione un po’ di groove e rendere ancor più evidente la complessità del lavoro).

Il difficile, come osservano i ricercatori di Magenta, “non è fare una canzone, ma farne una che la gente voglia ascoltare”. Ed è proprio è qui che si potrebbe innescare una fervente discussione filosofica e sociale. Cos'è l'arte? Cosa può essere definito artistico e cosa no? Un'opera d'arte è tale solo se trova ampio riscontro di pubblico o si dovrebbe considerare arte solo ciò che, partorito dall'intelletto (ormai non più solo umano), possa elevare lo spirito di chi ne fruisce? Le risposte sono ovviamente soggettive: cercare di dare una definizione universale è come imboccare una strada senza uscita. Se però si osserva l'attuale scenario musicale internazionale, quello più commerciale, viene davvero difficile individuare artisti (degni di questo sostantivo) che non possano essere facilmente rimpiazzati dai computer.

È mai possibile che i robot saranno in grado di sostituire l'uomo anche in settori così creativi? Le macchine senzienti ci renderanno tutti disoccupati o schiavi come Matrix o Skynet di Terminator? Anche qui è difficile dare una risposta plausibile, libera da congetture ed elucubrazioni visionarie. Ma è vero che, circa un anno fa, gli ingegneri Google avevano già mostrato le potenzialità di Deep Dream, un'intelligenza artificiale che, a partire da una foto, crea dipinti artistici con lo stile post-impressionista di Van Gogh. Nel tempo Deep Dream ha raffinato il suo algoritmo riuscendo a generare dipinti sempre più credibili e originali, tanto che a marzo di quest'anno le sue “opere” sono state battute all'asta, a San Francisco, con quotazioni fino a 8.000 dollari USA.

(Credits: puntoinformatico.it)

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Quantum computer, il MIT gioca con gli atomi

Gli esperti dell'istituto americano dicono di aver sviluppato un computer quantistico infinitesimale, capace di scomporre un numero interno nei suoi fattori. In futuro potrebbe “crackare” i sistemi crittografici più avanzati.

Mentre ancora si discute sul valore scientifico dei presunti computer quantistici già in circolazione, al MIT hanno ideato e (a quanto pare) sviluppato un sistema a base di qubit in grado di eseguire una semplice operazione di fattorizzazione su un numero a doppia cifra. È solo l'inizio, promettono i ricercatori, di qualcosa in grado di rivoluzionare l'informatica e l'uso applicato dei sistemi crittografici più moderni.

Il design di computer quantistico del MIT prevede l'impiego di 5 qubit, ciascuno rappresentato da un singolo atomo e “intrappolato” in una gabbia di ioni: i qubit sono in grado di rappresentare due stati differenti (“1” o “0” secondo la numerazione binaria) allo stesso tempo, e nel progetto del MIT quattro qubit servono a eseguire i calcoli mentre il quinto può archiviare, trasmettere, estrarre e riciclare il risultato.

Il quantum computer realizzato dagli esperti statunitensi è stato in grado di scomporre il numero 15 nei suoi fattori primi (3 e 5), e la fattorizzazione è proprio uno dei meccanismi adoperati dagli standard crittografici per rendere impossibile la decrittazione dei dati con l'impiego delle tradizionali infrastrutture informatiche a base di bit.Qualora gli esperti del MIT riuscissero a provare di poter scalare verso l'alto il progetto di computer quantistico con l'aggiunta di un maggior numero di qubit, la fattorizzazione non rappresenterebbe più un problema e gli schemi crittografici perderebbero immediatamente di efficacia. Tutto ovviamente in teoria.

(Credits: wired.it)

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Intelligenza artificiale nello smartphone, Google ci prova

Nasce una partnership con il produttore Movidius, per portare chip a basso consumo specializzati in deep learning sui dispositivi Android.

Google sta pensando di portare l’intelligenza artificiale negli smartphone tramite una nuova collaborazione con il produttore di chip Movidius, noto agli addetti ai lavori per via della sua presenza nel campo del deep learning. La collaborazione tra le due realtà, annunciata in queste ore, in realtà è già collaudata: la piattaforma Project Tango, che Google sta utilizzando sui suoi tablet sperimentali per renderli più coscienti dell’ambiente che li circonda, è stata realizzata proprio con il contributo di Movidius.

La nuova partnership porterà gli algoritmi di deep learning sviluppati da Google a lavorare sui chip MA2450 e successivi, realizzati da Movidius e in grado di svolgere compiti tipicamente associati alle reti neurali mantenendo un consumo energetico estremamente basso: una soluzione ideale per l’impiego in smartphone e tablet.

Al loro interno il chip sarà impiegato per operazioni come la machine vision, ovvero l’isolamento e il riconoscimento di elementi all’interno di una stanza o di un panorama, quali mobilio, persone, automobili, volti e segnali stradali.

Con due vantaggi sulle soluzioni attuali: non dovendo fare leva sul cloud, funzionerà in tempo reale eliminando i tempi di latenza richiesti dalle connessioni al server altrimenti necessarie e soprattutto potrà funzionare anche in mancanza di connessione a Internet.

(Credits: wired.it)

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Google al lavoro sul suo visore per la realtà virtuale

Il successo delle Cardboard, gli investimenti nella realtà aumentata: l’azienda ora cerca un ingegnere che guidi progettazione ed esecuzione di hardware VR per i consumatori.

Che Google stia pensando di costruire un proprio hardware per la realtà virtuale, è qualcosa in più di un’ipotesi. L’azienda ha infatti aperto una posizione per un Hardware Engeneering Technical Lead Manager. “Vogliamo scoprire nuove strade per interagire con i device”, si legge: “Come Hardware Engeneering Technical Lead Manager per i prodotti hardware rivolti ai consumatori, potrai guidare la progettazione e l’esecuzione del nostro sempre crescente portfolio prodotti”.

L’annuncio è stato segnalato da RoadtoVR, e quella di Google più che una strada verso la realtà virtuale, sembra essere un’autostrada a quattro corsie. L’attenzione all’hardware, considerato il successo dei Cardboard, si configura come una scelta lungimirante. Senza considerare gli investimenti dell’azienda in Magic Leap, specializzata in realtà aumentata.

(Credits: wired.it)

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Google promette meraviglie quantistiche

Mountain View sostiene di aver raggiunto importanti risultati prestazionali con il suo prototipo di chip quantistico, numeri controversi come il sistema da cui sono stati estrapolati. I soldi, in ogni caso, non mancano

Gli ultimi test condotti da Google dimostrerebbero le capacità concrete del computer quantistico, una tecnologia teoricamente in grado di fornire performance fuori scala nel trattamento di problemi di calcolo specifici. La questione in ogni caso rimane: quel chip è quantistico o meno? Nel dubbio, gli USA investono soldi e commissionano i qubit a IBM.

Google è al momento impegnata a studiare (in collaborazione con NASA) il presunto chip quantistico sviluppato da D-Wave (D-Wave 2X), un'azienda che sostiene di aver realizzato il primo quantum computer commerciale ma sulle cui reali capacità ricercatori e scienziati discutono inutilmente da anni. Che si tratti di una truffa in stile E-cat o di una rivoluzione tecnologica senza precedenti, in ogni caso, a Mountain View sono convinti di avere per le mani qualcosa di grosso: negli ultimi esperimenti basati sull'impiego di 1000 variabili binarie, dice Google, il metodo di ricottura quantistica (o quantum annealing) del chip D-Wave è significativamente più veloce della ricottura simulata fatta girare su un singolo core.

Il quantum annealing è un metodo generale pensato per risolvere i problemi di ottimizzazione con la ricerca del minimo globale di una funzione attraverso le fluttuazioni quantistiche dei qubit, un procedimento che secondo Google sarebbe 100 milioni di volte (10 alla ottava) più veloce sui chip di D-Wave che sulle CPU per computer tradizionali.Mountain View promette meraviglie quantistiche da qui a qualche anno, ma i ricercatori sono come al solito dubbiosi sulle presunte capacità del quantum computing in dotazione alla corporation: per Matthias Troyer, professore presso lo Swiss Federal Institute of Technology, i risultati trionfalistici di Google riguarderebbero un algoritmo specificatamente pensato per girare al meglio sul chip D-Wave e che avrebbe quindi un vantaggio ingiusto sulla controprova. Nel migliore dei casi, ipotizza Troyer, un diverso algoritmo di annealing simulato potrebbe essere “appena” 100 volte più lento di quello di D-Wave e non 100 milioni.

Sia come sia, gli investimenti sul computing quantistico continuano ad alimentare le speranze (o addirittura le previsioni) di rivoluzioni presso le grandi corporation tecnologiche, organizzazioni come IBM che sul quantum computing promette sviluppi senza precedenti in tutti i campi dello scibile umano e incassa i soldi di IARPA (Intelligence Advanced Research Projects Activity) per la realizzazione pratica di qubit logici che “durino di più” e possano far parte delle capacità di calcolo di un quantum computer universale.

(Credits: puntoinformatico.it)

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