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Bosch, i nuovi utensili parleranno la lingua dell’IoT

Al Bosch Blue Innovation Summit 2016 la multinazionale tedesca ha parlato di attrezzi connessi allo smartphone e in rete grazie alla sua piattaforma cloud.

Francoforte – Al Blue Innovation Summit, la manifestazione che la multinazionale tedesca Bosch ha tenuto per mostrare al mondo le sue ultime novità nel campo degli elettroutensili, l’accento era posto sostanzialmente su un unico assunto: in una giornata di lavoro media, il tempo che artigiani, operai e carpentieri riescono a passare sugli attrezzi da lavoro è appena il 30% del totale.

Come fare a sbrogliare un problema di produttività di questo genere, con più di due terzi della giornata che prendono il volo nel gestire operazioni logistiche? Bosch ha alcune idee a riguardo: molte le abbiamo viste in azione e passano attraverso soluzioni cloud, connettività con gli smartphone e internet delle cose.

Nell’immediato futuro è destinata infatti a espandersi la gamma di strumenti offerti dalla società che saranno in grado di comunicare direttamente con il telefono. Il rilevatore termico GIS 1000 C e il distanziometro laser GLM 50 C lanciati nei mesi scorsi ad esempio possono già non solo interfacciarsi con lo smartphone, ma grazie all’app per smartphone che li coordina possono anche produrre insiemi di dati pronti per l’esportazione in formato PDF e l’invio rapido a qualunque destinatario via email.

Anche gli attrezzi più classici hanno già iniziato a dotarsi di sensori che ne monitorano lo stato di funzionamento e, dal 2017, disporranno di un’interfaccia scavata all’interno della scocca nella quale si potrà inserire un accessorio bluetooth a fare da ponte tra lo strumento e il telefono. Acquistare il modulo sarà facoltativo, e il collegamento garantito sarà bidirezionale: da una parte l’accessorio leggerà le rilevazioni dei sensori interni al dispositivo e le comunicherà al telefono per avvisare l’utente di malfunzionamenti e surriscaldamenti; dall’altra permetterà di impostare a piacimento alcune caratteristiche come la velocità di rotazione dei motori.

Grazie a questo tipo di collegamento gli strumenti di lavoro potranno entrare a far parte del servizio cloud TrackMyTools, una piattaforma web ad abbonamento (in Italia l’iscrizione costerà 20 euro al mese) che permetterà alle imprese di tenere traccia del proprio parco hardware, associando gli attrezzi che di giorno in giorno vengono portati sul campo agli smartphone dei singoli impiegati. Chi gestisce l’inventario avrà così modo di sapere dov’è dislocato ogni utensile (grazie al GPS del telefono), ma anche se c’è bisogno di una sostituzione — tutto in tempo reale.

Nel suo ecosistema IoT Bosch non ha dimenticato di includere anche le offerte della concorrenza, che potranno entrare nella rete di TrackMyTools grazie a un piccolo gadget bluetooth leggero e impermeabile. Quest’ultimo, del costo di 15 euro, si applicherà in modo adesivo a qualunque attrezzo: sempre acquistabile dal 2017, non darà alcun tipo di informazione sulle componenti interne ma potrà servire ugualmente per l’etichettatura elettronica.

(Credits: wired.it)

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Atari si è data all’Internet of Things

La storica azienda cambia direzione e punta sull’Internet of Things: in arrivo dispositivi per smart home, animali e lifestyle in collaborazione con i francesi di Sigfox.

A volte tornano ma cambiano pelle. È il caso di Atari, che dopo aver scritto la storia con console e videogame si riaffaccia sul mercato guardando all’Internet of Things. Ad annunciarlo è la stessa ex azienda statunitense insieme a Sigfox, società francese dedita allo sviluppo di reti wireless e connessioni a basso consumo energetico e già attiva in 18 paesi, che ne sfrutterà il marchio.

Come in molte precedenti partnership votate al marketing, Atari sarà spettatore passivo nella produzione dei nuovi dispositivi, fregiati di un brand che, nonostante la bancarotta dichiarata nel 2013 e il nuovo corso circoscritto al mobile gaming, conserva un certo appeal verso il pubblico over 30. Al posto dell’erede del Video Computer System arriveranno accessori connessi per la smart home, la sicurezza e la vita fuori casa. Oggetti — alcuni semplici, alcuni più sofisticati — consentiranno agli utenti anche di monitorare la posizione dei loro animali e il relativo stato per migliorarne lo stile di vita.

La produzione partirà a fine anno: i dettagli sono ancora scarsi e l’unica certezza è che i futuri gadget saranno disponibili da subito su molti mercati internazionali.

(Credits: wired.it)

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L’Internet delle cose in Italia vale due miliardi di euro

In crescita del 30%: a trainare il mercato sono i contatori del gas intelligenti e le auto connesse.

Un mercato in crescita del 30% sul 2014 e che tocca ormai i due miliardi di euro. L’Internet of Things, la cosiddetta Internet delle cose, dà buoni segnali, trainata sia dalle applicazioni consolidate che sfruttano la connettività cellulare che da quelle che utilizzano altre tecnologie come wireless M-Bus o Bluetooth Low Energy.

Il settore e le sue potenzialità appaiono sconfinati tuttavia, per ora, a sostenerli sono i contatori del gas (25%) e le auto connesse (24%), due segmenti che da soli sfiorano il miliardo di euro di valore. Sono alcuni dei numeri appena diffusi dall’osservatorio dedicato della School of management del Politecnico di Milano. Confermano appunto che i principali tasselli del mercato sono quello dello smart metering e dello smart asset management nelle utility. In altre parole, i contatori intelligenti e i sistemi per la gestione in remoto dei guasti, delle manomissioni, della localizzazione e per altre applicazioni. Settori sostenuti per altro agli obblighi normativi che hanno portato a un parco di 350mila contatori gas già installati per le utenze industriali e a 1,2 milioni per le residenziali.

Bene anche la smart car, l’auto intelligente, con 5,3 milioni di veicoli del genere in Italia, un settimo del totale del parco circolante. L’88% di questi è tuttavia collegato con un box Gps/Gprs per localizzazione e registrazione dei parametri di guida per finalità assicurative. Ma stanno crescendo velocemente (+135%) le auto “nate” e progettate per la connettività: guardando alle immatricolazioni, ormai una su cinque è equipaggiata in questo modo.

Per il resto si consolidano anche le soluzioni legate allo smart building (18%), cioè risorse per la videosorveglianza e la gestione degli impianti fotovoltaici, così come la logistica, nell’ambito in particolare della gestione delle flotte aziendali e degli antifurti satellitari.

Si fa sempre più realtà anche la città intelligente, con 200mila mezzi di trasporto pubblico monitorati da remoto e 600mila pali dell’illuminazione smart. Il 60% dei comuni italiani con popolazione superiore a 20mila abitanti ha inoltre avviato almeno un progetto del genere negli ultimi tre anni e il 75% sta programmando iniziative per quello in corso. Ma le città nostrane sono ancora lontane dal diventare davvero intelligenti perché i progetti sono piccoli, sperimentali e meno di un comune su tre li ha avviati all’interno di un programma strutturato per migliorare vivibilità, sostenibilità e dinamismo economico del territorio. Insomma, sono casi isolati al di fuori di una cornice chiara.

Ancora piccolo (6% del mercato) il comparto della casa intelligente con applicazioni che fanno leva fondamentalmente sui sistemi antintrusione e sui termostati così come il cosiddetto smart asset management (5%) per la gestione di 340mila macchinette da gioco, 200mila ascensori e 80mila distributori automatici.

Salgono anche gli oggetti fisici, se considerati nel loro complesso. A fine 2015 erano circa 10,3 milioni quelli connessi tramite rete cellulare (con un aumento del 29%) a cui si devono aggiungere quelli che usano altre tecnologie: oltre ai 36 milioni di contatori elettrici connessi da tempo tramite Plc (logica programmabile), ci sono in particolare i 500mila contatori gas tramite radiofrequenza Wireless M-Bus 169 MHz e i 600mila lampioni connessi tramite Plc o radiofrequenza.

“Questi numeri denotano una crescita esplosiva dell’Internet of Things in Italia – ha spiegato Alessandro Perego, direttore scientifico degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano, nel corso di un evento nel capoluogo lombardo – ma il cambio di passo del 2015 non è racchiuso solo nella crescita del mercato. Ancor più importante è il consolidamento delle basi per lo sviluppo su tutti i fronti: città, consumatori e imprese. L’installazione di nuove reti di comunicazione dedicate all’IoT nelle prime città italiane, l’evoluzione dell’offerta in ambito smart home, sempre più integrata con servizi assicurativi e pronta a sbarcare anche nelle catene della grande distribuzione, i servizi innovativi per l’Industry 4.0 costituiscono presupposti importanti per il futuro. E l’IoT è sempre più una realtà in Italia”.

Sul fronte della casa intelligente, uno di quelli con i più ampi margini di sviluppo, l’indagine racconta per esempio che il 79% dei consumatori italiani è disposto ad acquistare prodotti per la smart home (il 72% anche servizi collegati), il 33% in più rispetto all’anno precedente. Tuttavia il percorso si annuncia lungo: solo uno su cinque dispone già di almeno un oggetto intelligente nella propria abitazione e le intenzioni di acquisto sono fumose. Per esempio, solo il 25% di chi dichiara di voler comprare un prodotto lo farà entro 12 mesi.

“Uno degli aspetti chiave per lo sviluppo futuro dell’Internet of Things è la valorizzazione dei dati raccolti, su cui ancora non ci sono strategie consolidate – ha spiegato Angela Tumino, direttrice dell’Osservatorio Internet of Things – i dati possono essere sfruttati nei processi interni all’azienda, riducendo i costi e migliorando l’efficacia verso i clienti, oppure possono generare valore all’esterno con la vendita a terzi, aprendo a nuove opportunità di business. La disponibilità di dati puntuali sull’utilizzo dei prodotti grazie all’IoT rende possibili nuove strategie di prezzo ‘pay-per-use’, che iniziano a interessare non solo i servizi, come l’assicurazione auto che varia in base alla percorrenza annua, ma anche i prodotti, come gli pneumatici pagati in base ai chilometri percorsi. In alcuni casi la vendita è addirittura incentivata proprio per avere accesso a nuovi dati, che costituiscono fonte di valore per le aziende, come nel caso dei dispositivi wearable promossi da parte delle assicurazioni”.

E per il 2016 cosa c’è da aspettarsi? Continueranno a crescere i dispositivi connessi per la casa, la città, l’auto e l’industria. Sul primo fronte, per esempio, lasciano ben sperare i movimenti della grande distribuzione che, rimasta ai margini fino a questo momento, costituirà un nuovo punto di contatto con i clienti, insieme all’online, alle assicurazioni e alla filiera tradizionale della domotica.

(Credits: wired.it)

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Genuino MKR1000, la nuova scheda per l’Internet of Things

Arriva finalmente sul mercato con doppia alimentazione: via cavo e batteria.

Insieme ai festeggiamenti per il dodicesimo anno d’età, arriva sul mercato MKR1000, la nuova scheda di Arduino (che da noi si chiama Genuino) dedicata all’Internet of Things. Minuscola come non mai, la MKR1000 è basata sull’Atmel ATSAMW25, un chip Cortex-M0+ a 32-bit pensato proprio per ambienti a basso consumo elettrico. A bordo poi offre l’indispensabile connessione Wi-Fi e il supporto crittografico per evitare intromissioni illecite nel sistema.

L’ultima chicca riguarda l’alimentazione: la MKR1000 può funzionare non solo con corrente a 5 Volt ma anche tramite una batteria Li-Po, una caratteristica fondamentale per liberare i nostri dispositivi intelligenti dai cavi.

Insomma, una piccola belva che farà gola ai maker impegnati nell’Internet delle Cose, tanto più che il prezzo sul sito ufficiale è di 30,99 euro tasse escluse.

(Credits: wired.it)

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Come è facile hackerare le videocamere di sicurezza

L’Internet of Things corre in fretta, ma rischia di dimenticarsi la sicurezza degli utenti: ecco le minacce e i rischi. Che partono da una semplice webcam.

Shodan è un motore di ricerca un po’ particolare, che va a caccia di gadget connessi alla cosiddetta Internet delle Cose: un frigo per inviarti via email l’elenco di ciò che manca, o un sistema di videosorveglianza connesso al web, per controllare casa mentre sei in vacanza, sono ottimi esempi. Se avete tempo, registratevi e vedete cosa succede.

A questo punto, ci sono due notizie buone e una cattiva. La prima buona è che l’Internet delle Cose migliorerà davvero la nostra vita. La seconda è che non sarà un fenomeno passeggero se, come racconta uno studio di BI Intelligence, per il 2019 ci ritroveremo 6,7 miliardi di aggeggi di questo tipo, capaci di generare un mercato da 1700 miliardi di dollari. Adesso arriva la cattiva notizia: l’Internet of Things è così spinta dai produttori, che nella loro corsa affannata a conquistare per primi il mercato si son scordati della sicurezza. Per farla breve: i dispositivi dell’Internet of Things rischiano di essere dei colabrodo.

Il problema delle webcam

Non ci credete? E qui torniamo a Shodan, non si scappa. Iscrivendosi al motore con la formula a pagamento, si ha accesso, per esempio, a una moltitudine di webcam. Alcune consapevolmente pubbliche, altre decisamente no. Parliamo, per dire, di webcam puntate su culle per tenere d’occhio i figli dall’altra parte della casa. Oppure di webcam puntate su coltivazioni di marijuana, di modo che il produttore abbia sempre sotto controllo come procede la crescita delle piantina. Perfino webcam di videosorveglianza privata, e sia mai che alcune non puntino su sportelli ATM dando modo di risalire ai codici PIN. A quel punto, basta rubare la carta e si procede al prelievo… abusivo.

Ecco, quello delle webcam è un tema molto sentito tra gli esperti di sicurezza informatica, anche da prima dell’avvento dell’IoT, ma il nuovo trend ha amplificato il problema. In particolare, viene messo sul banco degli impuntati il famigerato protocollo Real Time Streaming Protocol, anche detto RTSP 554, cioè una tecnologia che consente in effetti di pubblicare riprese da webcam sulla Rete, ma senza alcun tipo di autenticazione. Così uno pensa di utilizzare la webcam per i suoi affari privati, e invece il flusso d’immagini è visibile da chiunque lo desideri. Se volete un assaggio, gratuito, dopo esservi iscritti alla versione base di Shodan, andate a questo link e godetevi lo spettacolo.

Nel momento in cui scrivo ce n’è per tutti i gusti: strade pubbliche (e fin qui), uffici (e va bè), case private, stanze di bambini e palestre. Quello delle webcam è uno dei tanti problemi di sicurezza che rischiano, sempre più, di palesarsi con la diffusione dell’Internet delle Cose. E mentre l’International Standards Organization cerca di adattare le norme ISO 27000 all’ambito della IoT, e la IEEE lavora a tecnologie che garantiscano la sicurezza di questo dispositivi, si allunga la lista di vulnerabilità e criticità che, a oggi, dovrebbero far tirare un po’ il freno a mano al settore. Oltre alle webcam, il riferimento primario sono le automobili, dove non si contano gli “hack” che consentono di accedere a un veicolo da remoto, arrivando perfino a prenderne il controllo.

Anche le bambole

È dello scorso dicembre la notizia secondo cui perfino una bambola sviluppata sul modello dell’IoT era hackerabile.

In pratica, Hello Barbie consente a un bambino di conversare col giocattolo, sfruttando un sistema cloud del tutto simile a Siri e a Cortana, chiamato ToyTalk. Il ricercatore Andrew Hay, tuttavia, ha scoperto in questa Barbie una serie di vulnerabilità che portano addirittura all’intercettazione delle comunicazioni del bambino. Il bambino parla con la bambola, ma è possibile ascoltarlo anche da remoto, sfruttando un ben noto bug che colpisce la crittografia SSL. Un banale errore, che però porta a una considerazione importante: di fatto, l’Internet of Things non aggiunge niente di nuovo dal punto di vista tecnologico, ma sfrutta per buona parte tecnologie già esistenti. È dunque necessario pensare a come queste tecnologie si comportano in questo settore, così diverso da quelli abituali dove sono utilizzate. E i rischi che ne possono derivare.

Protocolli (webcam) e bug noti da risolvere (SSL), sono due degli esempi dei problemi endemici dell’attuale generazione di dispositivi IoT, ma l’elenco non si esaurisce qui, ovviamente.

Problemi per tutti

Il problema degli aggiornamenti è quanto mai stringente anche in questo campo, come se già non lo fosse abbastanza nel ramo di computer, smartphone e tablet. Il concetto è molto semplice: se il dispositivo dell’Internet delle Cose poggia su un router per interfacciarsi al web, il router diventa l’apparecchio da tutelare a tutti i costi. Quello dove erigere la barriera più efficace. E invece la scarsa disponibilità di aggiornamenti rilasciati dai produttori rischia di moltiplicare spiacevoli situazioni, come la vulnerabilità che l’anno scorso ha attanagliato D-Link e che consentiva di prenderne il controllo, gestendo i dati che fluttuavano verso i dispositivi wireless. Pensate alle conseguenze, in una casa controllata da dispositivi connessi alla Rete. Ma i problemi non si limitano al solo software.

La corsa all’Internet delle Cose non ammette pause nemmeno tra i progettisti hardware, che spesso e volentieri privilegiano il design e le caratteristiche di grido alla sicurezza. Ne è un esempio la così detta vulnerabilità Rowhammer. In breve: il Project Zero Team, il team di Google dedito alla ricerca sulla sicurezza, ha scoperto che scrivendo dei dati, ripetutamente, in alcuni moduli di RAM, era possibile scavalcare le protezioni del sistema operativo di un apparecchio. Per quante protezioni si possano infilare nel sistema operativo, insomma, se un apparecchio usa quelle RAM è possibile bypassare i controlli e prendere il controllo del dispositivo. E il brutto è che sistemare un bug hardware non è così semplice, e spesso e volentieri è necessario sostituire proprio il componente fisico.

C’è chi ha risolto il problema in modo brillante, anche se ovviamente si tratta di mettere una pezza su una questione più complessa. Tra questi Bitdefender con la sua BOX, un apparecchio che si interpone tra router e dispositivi IoT, controllando il traffico dati, rivelando operazioni sospette e, nel caso, bloccandole. Un firewall smart, in pratica, ma un po’ più raffinato di quelli abitualmente integrati nei router domestici.

Infine, occhio alle interfacce. Quelle pagine web che utilizziamo per accedere, a distanza, ai nostri favolosi aggeggi IoT, non si prendono ancora abbastanza cura della sicurezza. Si deve pensare all’IoT, e i dati di mercato menzionati all’inizio lo confermano, come a un fenomeno di massa. Che, quindi, raggiungerà anche persone che faticano a utilizzare password diverse da “password” o “123456”. Occorre forzare il meccanismo e obbligarle a pensare a password migliori, mentre le interfacce IoT attuali ne accettano anche di cinque o sei lettere, e cioè crackabili in qualche giorno al massimo. Non ci credete? E allora ditemi: vi siete mai preoccupati di verificare che la password del vostro router non sia ancora “admin”, cioè quella di fabbrica?

(Credits: wired.it)

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