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IA, la pagaiata open di Baidu

Il colosso cinese si aggiunge alla lista di aziende che hanno scelto di distribuire le rispettive piattaforme IA sotto licenza open source. Facebook, invece si apre con la compressione.

Baidu ha deciso di trasformare la sua piattaforma di machine learning in un progetto open source distribuito su GitHub, iniziativa che arriva un po’ in ritardo su quanto già fatto dalle concorrenti occidentali ma che agli sviluppatori vuole offrire un approccio orientato alla semplificazione del lavoro.

PaddlePaddle o PArallel Distributed Deep LEarning, questo il nome della piattaforma deep learning di Baidu, arriverà su GitHub il prossimo 30 settembre sotto licenza Apache ed è già utilizzata internamente per gestire il ranking nei risultati delle ricerche Web dei netizen cinesi, il riconoscimento e la classificazione delle immagini, OCR, traduzione automatica e advertising.

Diversamente da Google TensorFlow, Microsoft CNTK e altri, PaddlePaddle offrirebbe secondo Baidu la possibilità di ridurre il numero di linee di codice necessarie agli sviluppatori per adattare i propri “task” e obiettivi alla piattaforma base.La tecnologia cinese vuole insomma ritagliarsi uno spazio in un settore che si fa sempre più affollato, garantendo al contempo tutta una serie di funzionalità avanzate come il supporto agli standard di reti neurali più popolari, l'utilizzo contemporaneo di un gran numero di unità computazionali (CPU e/o GPU) e via elencando.

Anche da Facebook arriva poi una nuova offerta open source, sebbene in questo caso non si parli di IA o di machine learning bensì di compressione dei dati: Zstandard è un nuovo algoritmo di compressione che il social network in blu propone come alternative alle librerie classiche come zlib, un'implementazione che offre miglioramenti soprattutto sul fronte della velocità di compressione.

Zstandard è in grado di ottenere la stessa percentuale di compressione di zlib ma in un quinto del tempo, sostiene Facebook, oppure di ridurre le dimensioni dei file del 10 per cento a parità di tempo. È infine open source anche MyRocks, una tecnologia pensata per migliorare l'archiviazione di dati su database relazionali (MySQL) occupando metà dello spazio su server necessario alle soluzioni concorrenti (InnoDB).

(Credits: puntoinformatico.it)

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Open source, le motivazioni degli sviluppatori

Uno studio esplora le ragioni di chi dedica il proprio tempo ai progetti FOSS, identificando gli stimoli che spingono a partecipare piuttosto che gli obiettivi che gli sviluppatori si prefissano.

Un team di ricercatori internazionale ha pubblicato uno studio sulle “motivazioni, i valori e i piani di lavoro” dei partecipanti al progetto R, un ambiente open source che è diventato il tool più popolare nel campo dell'analisi dei dati e del calcolo statistico. I risultati della ricerca sono limitati a un solo progetto FOSS, quindi, ma le indicazioni che ne emergono potrebbero essere applicate anche al resto dei progetti open source di una certa importanza.

Basandosi su un questionario spedito via email a circa un migliaio di sviluppatori che hanno lavorato al codice di R, lo studio vuole fornire risposte a domande basilari come le motivazioni che hanno spinto a partecipare al progetto, l'eventuale ricerca di soddisfazioni personali, di fama o di partecipazione a una community unita per un obiettivo comune.

Tra i risultati più interessanti che emergono dallo studio c'è il fattore “sociale” della collaborazione a un progetto FOSS, visto che stando alle risposte ai questionari gli sviluppatori impegnati in un task che richiede un'interazione tra colleghi hanno maggiori possibilità di continuare a lavorare sul codice rispetto a chi è impegnato in un task solitario.La dipendenza tra gli sviluppatori favorisce la partecipazione, dice lo studio, mentre chi si concentra sulla sola creazione di codice finisce per sentirsi meno “coinvolto” e quindi ha minori incentivi per continuare a lavorare sullo stesso progetto anche in futuro.

La collaborazione al progetto R risulta poi ulteriormente incentivata se il codice FOSS ha una relazione con il lavoro a tempo pieno svolto da uno sviluppatore, dice ancora lo studio, mentre gli studi accademici non sembrano avere particolare importanza sulla partecipazione.

Gli sviluppatori FOSS tendono a lavorare per ragioni altruistiche più che per mettere in mostra le proprie capacità, spiegano i ricercatori, fatto ancora più significativo se si prende in considerazione il valore economico del settore recentemente stimato in 5 miliardi di dollari. Riguardo la “socialità” della community di R, infine, la scurrile e brutale sincerità che si respira sulla mailing list di Linux non sembra essere una caratteristica indispensabile per far procedere il lavoro.

(Credits: puntoinformatico.it)

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Swift, Apple pianta un seme open source

Apple ha distribuito il codice di Swift sotto licenza open source, come promesso, con la prospettiva di diffonderne la popolarità anche al di fuori degli steccati degli App Store. Cupertino, però non cede totalmente il controllo del progetto

Il linguaggio di programmazione Swift si trasforma in un progetto open source con un nuovo portale Web e la distribuzione dei sorgenti su GitHub, con una mossa che Apple aveva annunciato da tempo e che è dichiaratamente pensata per trasformare la tecnologia in qualcosa di “rilevante” ben al di là delle app per iOS e OS X.

Il nuovo linguaggio è nato un anno fa, come alternativa a Objective-C per la creazione semplificata e sicura di app per i gadget Apple: almeno per quanto riguarda l'ecosistema chiuso di Cupertino, Swift ha accresciuto la sua popolarità tra gli sviluppatori in un tempo relativamente breve.

La distribuzione del progetto tramite licenza open source era stata annunciata l'estate scorsa in occasione della conferenza WWDC 2015, e la concretizzazione di quella promessa si accompagna con un primo porting del codice su Linux sviluppato direttamente da Apple.Cupertino dice di voler trasformare Swift in uno dei linguaggi di programmazione “fondamentali” per i prossimi 20 anni dello sviluppo software, ma al momento il porting su piattaforme diverse da iOS/OS X e il succitato Linux sembra sia affidato alla community di volontari interessati alla prospettiva.

Con la versione FOSS di Swift, Apple vuole attirare l'interesse dei clienti business ed estendere la propria influenza al di là degli steccati che recintano i suoi vari app store. Quello che la corporation non intende fare, a quanto pare, è cedere il controllo sull'evoluzione del linguaggio: la versione “commerciale” di Swift, necessaria a sviluppare e pubblicare app su iOS, continuerà a essere gestita internamente da Apple con “sincronizzazioni” periodiche delle funzionalità con il codice open source su GitHub.

(Credits: puntoinformatico.it)

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Dati e open source stanno accelerando lo sviluppo dell’intelligenza artificiale

Da Tesla a Google, sempre più colossi dell’hi-tech mettono a disposizione le loro ricerche nel campo dell’AI. Lo scopo è accelerarne lo sviluppo.

Intelligenza artificiale sì, intelligenza artificiale no? C’è da dire che i suoi sviluppi hanno preoccupato molti, persino alcuni big. Elon Musk, che è stato uno dei suoi detrattori più fanatici, l’ha definita “più pericolosa del demonio”; l’astrofisico Stephen Hawking ha paventato un domani in cui i “computer prenderanno il potere”; infine Bill Gates ha adottato un approccio moderato, però invitando tutti a tenerla d’occhio.

Eppure i rischi tanto temuti sembrano, in realtà, molto lontani. Ed è, invece, proprio nella capacità di far “pensare” le macchine, così come di farle interagire con noi in un linguaggio naturale, che si giocano gran parte delle sfide future nel mondo dell’hi-tech. Un settore che, nonostante le critiche, negli ultimi anni ha attirato gli investimenti miliardari della Silicon Valley. Tanto che il giornalista del Financial Times, Richard Waters, l’ha definita “una nuova frenesia”. Per capirne la portata basta usare un po’ di fantasia.

Immaginate, per esempio, di camminare per strada indossando degli occhiali smart, e di riuscire a sapere in tempo reale nome, gusti e interessi di ogni persona che vi circonda. Una rivoluzione, alla cui base c’è il deep learning, ossia quella tecnologia d’apprendimento automatico, sviluppata a partire dagli anni Ottanta, che mima il comportamento dei neuroni umani. E qual è il modo migliore per accelerare la sua evoluzione? Condividere i risultati delle ricerche, sostengono in tanti (e qualcuno sta anche tentando la strada del crowdfunding).

“Sono progetti talmente grandi che l’unico modo per portarli a compimento è coinvolgere tutta la comunità di ricerca, non più solo quella interna a una ditta”, commenta a Wired.it Giorgio Metta, direttore della iCub Facility dell’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) di Genova. “I benefici sono due: le informazioni girano più velocemente tra i vari gruppi che si occupano di queste tematiche; e poi chi rilascia il software ottiene in cambio, praticamente gratis, tutta la fase di testing del software stesso”.

L’ultimo grande colosso a crederci è stato Google, che nelle scorse settimane ha reso TensorFlow open source. “È una libreria per l’apprendimento automatico”, ci spiega Rajat Monga, uno degli ingegneri di Mountain View che ha lavorato al progetto. In concreto: si tratta di un insieme di modelli matematici che permettono alle macchine di capire dei determinati dati che hanno a disposizione. Le possibili applicazioni? Dal riconoscimento delle immagini a quello vocale, passando per la traduzione da una lingua all’altra. “Se vorrai che la tua app sia in grado di identificare delle foto di cani o gatti, usando TensorFlow potrai farlo”. Certo, bisogna fare attenzione: Big G sta condividendo solo parte della sua AI e non l’infrastruttura hardware che ne è il motore. “Ma la mossa è significativa“, ha scritto Cade Metz su Wired, “sia perché l’AI di Google è riconosciuta come una delle più avanzate del mondo sia perché, be’, si tratta di Google”.

“Negli ultimi anni il machine learning si è sviluppato molto rapidamente e crediamo che la ragione della crescita sia la collaborazione tra compagnie e accademie“, prosegue Monga. “Ciò che ora cerchiamo di fare è aiutare questo processo, mettendo a disposizione non solo le nostre ricerche, ma il codice su cui lavoriamo”.

Nella stessa direzione si è mossa anche Facebook. Il laboratorio di Parigi dedicato all’AI guidato da Yann LeCun (una delle figure di primo piano nel settore) ha infatti reso disponibili parte dei suoi algoritmi su Torch: uno dei framework open source usati da chi si occupa del tema come Caffe e Theano. Come annota Walter Quattrociocchi, informatico, e coordinatore del Laboratory of Computational social science dell’IMT di Lucca, c’è però un’ipocrisia di fondo: “Mettono a disposizione i loro strumenti, ma non il modo in cui li usano. Ad esempio, non sappiamo come funziona l’algoritmo che regola il flusso delle notizie sulle nostre bacheche. Del resto, fa parte della strategia di queste aziende: da una parte rendono open i loro lavori per accelerare i progressi e per guadagnare simpatie all’interno della comunità, dall’altra salvaguardano il loro bagaglio di conoscenze”.

A fare del tutto le pecore nere, al momento, sono Amazon e soprattutto Apple. Quest’ultima, dopo aver messo a segno il suo più grande successo in questo campo nel lontano 2010 (con l’acquisizione dell’assistente vocale Siri), sta pian piano espandendo l’arsenale “intelligente”. In primis, grazie all’inglobamento di startup, come VocalIQ (specializzata in API per il linguaggio naturale), e Perceptio (che sfrutta l’AI per classificare le foto negli smartphone); e poi grazie al reclutamento di importanti ricercatori, soffiati ad altre aziende, tra cui Microsoft. Sul portale dell’azienda di Cupertino sono ben 45 le posizioni aperte che menzionano l’intelligenza artificiale.

Alla conferenza sui sistemi di elaborazione delle reti neurali che si è tenuta lo scorso anno a Montreal, l’impero fondato da Bill Gates, Big G, il motore di ricerca cinese Baidu, come Facebook e IBM hanno presentato delle ricerche. Indovinate, invece, quanti sono stati i risultati condivisi da Apple? Zero. I suoi dipendenti hanno sì, partecipato all’evento, ma mantenendo un profilo basso, senza nemmeno dire per quale compagnia lavorassero, a meno che non gli venisse chiesto. L’ha denunciato Bloomberg Businessweek, che ha raccolto la testimonianza di Yoshua Bengio, professore di informatica dell’Università di Montreal e pioniere nel campo dell’AI: “Non esiste che loro si limitino ad osservare, senza prendere parte alla comunità, e traggono vantaggio da ciò che sta accadendo”, ha detto Bengio. “Credo che se non cambiano attitudine, rimarranno indietro”.

(Credits: wired.it)

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